Per il debutto dello Stage door blog vorrei ragionare sul significato che attribuisco al coaching e alla mia attività di coach.
Più che un manifesto vi propongo una vera e propria dichiarazione di intenti.
Cosa rappresenta il coaching nella mia vita? Quale significato posso ogni giorno trovare per dedicare le mie energie a questa attività?
La vera chiave per la felicità risiede nel vivere in modo autentico e soddisfacente il “qui ed ora”. Noi siamo mutevoli, diversi in ogni età della nostra vita e ci muoviamo in un mondo che cambia con esigenze sempre differenti. Chiediamo cose diverse in un mondo sempre diverso e in circostanze che mutano in conseguenza alla nostra volontà e indipendentemente da essa.
Per questo possiamo essere autentici solo cambiando per preservare i nostri valori e la nostra consistenza in un ambiente magmatico.
Il coaching serve a questo, a cambiare forma restando fedele a noi stessi. È la gioiosa e prolifica fatica di vivere.
Il cambiamento è faticoso
Lo è in termini di energie che si spendono e di decisioni da affrontare.
La zona di comfort non è mai un luogo paradisiaco dove stare, eppure in questo impervio territorio conosciamo i pericoli e sappiamo come affrontarli. Uscire dalla zona di comfort per costruire nuovi sentieri da percorrere è sempre un processo oneroso, eppure vale la pena affrontarlo. Per essere felici e in linea con noi stessi dobbiamo accettare la nostra natura di forme in divenire, oltre ogni rigida categorizzazione, rassicurante quanto bloccante.
Il punto di partenza
Quando inizia il cambiamento? Si comincia quando si percepisce la nota stonata. Si decide di cambiare quando emerge la percezione che i limiti che stiamo fissando sono nocivi al nostro benessere.
Il punto di partenza è sempre quando il delta tra quello che desideriamo fare e quello che sappiamo essere per farlo appare incolmabile. È lì che il coaching agisce.
Nel 1990 ero una giovane attrice in un piccolo (scoppiettante) gruppo di teatro che si chiamava Vendavales. I giovani teatranti di quel periodo vivevano il mito di Jerzy Grotowski, dei suoi attori storici e dell’esperienza di teatro mistico che il regista stava sperimentando a Pontedera. Il nostro leader era Livio Milanesio, un geniale, all’epoca giovanissimo, artista. La sua attività aveva catturato la curiosità del maestro polacco che inviò una piccola delegazione dei suoi attori per un workshop dedicato a noi. Sono stati giorni di lavoro indefesso, fisicamente stremante, per educare e allenare il corpo che era il pennello di cui l’attore disponeva in scena.
Questa è stata l’occasione in cui ho incontrato Rena Mirecka, storica attrice del Teatro Laboratorio. Rena ci spiegò che il lavoro fisico dell’attore deve concentrarsi sui blocchi. e lei che aveva un blocco nel movimento a livello del bacino, spendeva da molti anni gran parte delle sue energie e del suo impegno nella mobilizzazione dell’area.
Rena aveva trovato un punto debole, un blocco sul quale concentrarsi e lavorare. Quello era il suo modo per lavorare sull’essere in scena, utilizzando un limite per fissare un traguardo.
Questo è quello che il coaching può aiutare a fare.
Cosa non devi aspettarti
Cosa non è per me il coaching?
Non è consolazione. Accoglie ma non aiuta a far pace con la sfortuna.
Non è una via per vivere i limiti individuali e le limitazioni esterne come condizioni inamovibili, e raggiungere attraverso la rassegnazione una serenità pacificata (e compiaciuta).
Non voglio con questo dire che la consolazione, la resa, il riposo delle armi non siano utili. Semplicemente per questo non serve un coach, basta qualcuno che ci voglia molto bene, che ci ami per quello che siamo, che accetti incondizionatamente i nostri difetti e la sofferenza che arrecano.
Per questo serve una madre (sempre che il destino ne abbia riservata una del tipo ogni scarraffone è bello a mamma sua, fortuna che non a tutti capita), per questo serve un partner innamorato nella prima fase di una relazione, serve una sorella, un fratello, un amico prezioso.
Non sarà con un percorso di coaching che riposerai.
Il coaching accompagna il cambiamento.
Non lacrime e sangue, ma impegno consapevole
Non fraintendetemi, il coaching non prevede pene corporali o il cilicio!
Il coachee conosce ciò di cui ha bisogno. Il coachee ha deciso di intraprendere un percorso di cambiamento per stare meglio, per essere felice, per vivere in modo organico a se stesso.
Cosa è allora un percorso di coaching?
Il teatro mi presta una metafora per spiegarlo. Il coaching è lo spazio delle prove, dove il coachee regista può sperimentare, un luogo protetto da sguardi indiscreti e giudicanti, il suo cambiamento. Il coach è il suo alleato, pronto ad accogliere e ad incoraggiare, preparando il debutto. Il coach è il fido aiutante di scena pronto a sparire tra il pubblico appena risuoneranno gli scroscianti applausi della prima.
Cambiare è un atto creativo
Cambiare è un atto creativo e procede per accumulo e per sottrazione. Il coach offre stimoli per l’accumulo delle suggestioni e osserva il lavoro di pulitura successivo, sempre presente e sempre dalla parte del coachee.
Il percorso di coaching è divertente nel senso etimologico del termine (de-verto, volgersi lontano) e propone uno guardo alternativo, a tratti dissacrante che allena il muscolo del pensiero e forza i blocchi trasformando i limiti in potenzialità.
Sei pronto ad allenarti ad essere felice? La data della prima è vicina!