Ho conosciuto Micaela Ghisleni nel 2004, a Bardonecchia, durante una breve vacanza estiva in montagna. Era amica di amici.

La nostra amicizia è maturata con calma negli anni. Per molto tempo mi sono tenuta a distanza di sicurezza. Micaela mi faceva paura: dava l’impressione di avere chiaro in mente quello che voleva, era definita e perfettamente consapevole.

Manifestava fastidio per i doveri che non riconosceva e insofferenza per le costrizioni. Faticavo a capirla. Per anni il nostro rapporto è stato mediato dall’affetto e da una dose massiccia di ironia, indispensabile per superare posizioni che sembravano inconciliabili.

In realtà credo che tutti questi pensieri fossero solo miei. Ero io, infatti, a cercare di conciliare il mio stakanovismo aziendale con le sue affermazioni. Per Micaela era assolutamente pacifico che potessero esserci posizioni molto lontane e non aveva l’esigenza di “normare” il mondo.

Da allora sono passati molti anni. La vita ha vaporizzato qualche convinzione. Siamo cambiate un po’. Ci siamo avvicinate. Lei mi ha insegnato molto.

Incontro Micaela su Skype un pomeriggio di dicembre. È sola in casa. Sorseggia un calice di vino rosso. Fuma una sigaretta. Ha appena concluso la sua giornata di smart working. Si lamenta del suo stare tutto il giorno davanti allo schermo. È calma, rilassata, per un attimo felice di essere sola in casa.

Le spiego cosa farò di questa intervista. La mia introduzione è l’inizio di tutte le interviste, ma con lei ci metto molta cura: Micaela è diffidente verso Internet, e ha il pallino della privacy.

Michi, vorrei raccontare il tuo talento per ispirare le persone che leggeranno.

[Ridiamo insieme, sulla semplicità del ragionamento che propongo. La complessità del pensiero è una delle caratteristiche a cui non ha ancora rinunciato.]

Chiedimi che cosa vuoi e cercherò di rispondere in modo utile!

[Eccola, la mia amica filosofa, la sola che io conosca ad aver indicato la professione di “Filosofo” sul documento di identità.]

Perché hai scelto di studiare filosofia?

Non avrei potuto fare altro. Il primo anno di università ero iscritta a scienze della comunicazione, che era una facoltà nuova che avrebbe formato esperti di comunicazione per il marketing e la pubblicità. Era stata una scelta di compromesso tra quello che amavo e quello che poteva essere utile per trovare un lavoro.

Durante un seminario, una docente sudamericana ospite ha usato una metafora che mi ha colpita moltissimo: la comunicazione senza contenuti da comunicare è come uno scheletro senza carne. In quel momento ho capito che non mi interessava saper comunicare, mi interessava avere a cuore cosa andavo a comunicare.

Per questo, la sola cosa che aveva per me significato studiare era la filosofia.

Hai spostato l’attenzione dalla forma al contenuto.

Quando ho maturato questa consapevolezza ero all’inizio del primo anno di Scienze della comunicazione. Ho trascinato i miei studi sostenendo gli esami che mi sarebbero valsi anche a filosofia. Intanto ho dato un ultimatum ai miei: o faccio filosofia o non faccio nulla. Sono passata a filosofia.

Che tipo di studentessa eri?

Al liceo ero svogliata e indisciplinata. Mi annoiavo. Mi ponevo domande e le ponevo ai docenti anziché studiare e questo indisponeva parecchio. Sono stata così fino a quando non ho incontrato un insegnante bravo e appassionato che mi ha trasmesso il piacere di conoscere (Fabio Fiore).

Non studiavo più per dovere o per i voti, ma per il desiderio di conoscere cose nuove. Così ho iniziato a leggere i classici, soprattutto Aristotele.

All’università sognavi la carriera universitaria?

Ci sono arrivata per caso. Non avevo una vera vocazione per l’insegnamento, ma per la ricerca sì. Immaginavo una carriera avventurosa fuori dall’università, non volevo fare il topo di biblioteca. Avevo fatto un colloquio in un’agenzia di investigazione, una cosa alla Charlie’s Angels. Aspettavo una risposta e un giorno ho accompagnato un amico a fare uno scritto per un dottorato di ricerca. L’ho fatto anche io. Alla fine, ho vinto la borsa di studio per il dottorato (e anche il mio amico).

Mi piaceva, si trattava di etica pratica.

Un epidemiologo, docente di medicina, mi offre di partecipare a un programma di ricerca europeo sugli aspetti etici della medicina delle prove di efficacia. Mi ritrovo in prima linea con altri ricercatori europei. Incontro e lavoro con gli autori dei libri che avevo studiato per la tesi di laurea: per me era come incontrare Aristotele, Hegel, Heidegger! Sedevo al tavolo con studiosi del calibro di Ruth Chatwick, John Harris, Michael Parker, Richard Ashcroft. Partecipavo a discussioni tra pensatori intenti ad affrontare temi nuovi e a imprimere una direzione al pensiero.

Per la tesi di dottorato ho messo insieme i risultati di questo lavoro, in cui è stata disegnata una via per far dialogare la parte più scientifica e quella più umanistica nelle decisioni in ambito sanitario.

Al termine del dottorato la tua esperienza sul campo continua…

Siamo nel 2005, vengo chiamata per un altro progetto europeo. Devo viaggiare in 13 paesi europei e intervistare i responsabili delle decisioni sanitarie: intervisto i Ministri della salute di tutta Europa, e i responsabili degli istituti di ricerca. È una ricerca sul campo per individuare le linee guida oncologiche, mi muovo tra i paesi ma anche tra le diversità culturali e linguistiche. Un lavoro entusiasmante.

Mi offrono un assegno di ricerca per due anni alla facoltà di medicina.

Qui, oltre alla docenza, sono impegnata nel definire le basi per l’insegnamento di scienze umane e di bioetica per i futuri medici. Insomma, inizio a fare la progettista della formazione, quello che molti anni dopo sarà il mio lavoro.

I temi sono quelli che conosco meglio e di cui mi sono occupata: inizio vita, fine vita, genetica e consenso informato.

A questo punto, sei soddisfatta professionalmente, a un passo dal diventare una “strutturata”. Cosa succede poi?

Decido di affrontare un progetto personale al quale penso da molto tempo: avere un figlio. Ho 38 anni, le mie condizioni personali lo permettono, è arrivato il momento di diventare madre. La reazione della Facoltà mi spiazza. La mia maternità non è giudicata compatibile con le mie aspirazioni di carriera: vengo esclusa dal progetto.

Come accade a molte donne, subisco una discriminazione. Quello che non mi sarei mai aspettata è che la discriminazione di genere potesse avvenire anche in un ambiente universitario.

Nei successivi quattro anni, faccio la mamma. Continuo a mantenere un corso di 60 ore al Politecnico, ma è un lavoro che mi impegna solo una parte dell’anno. Sostanzialmente, con la nascita della mia prima figlia, la mia carriera universitaria si interrompe.

Cerco di usare le mie competenze al di fuori dell’ambito universitario, ma è molto difficile farlo ricavando uno sostentamento. Insomma, la filosofia non mi permette di mettere insieme il pranzo con la cena. Mi resta la passione, ma capisco che devo trovare un’alternativa.

Superati i quaranta, con un curriculum prestigioso ma solo universitario, cosa hai fatto?

Ho accettato di lavorare in uno studio medico come segretaria. Era un’attività part time che mi permetteva di dedicare tempo a Cecilia, la mia prima figlia.

Non era poi così fuori tema rispetto alla mia formazione, l’ho vissuto un po’ come la discesa della bioetica nella vita reale. Dietro lo sportello di un medico di base ho affrontato nella realtà i soggetti della bioetica.

Ci sono rimasta due anni: poi, tramite un amico, ho iniziato a lavorare come progettista della formazione.

Che è il tuo lavoro attuale. Ti piace?

Mi piace? Sì, potenzialmente mi piace, anche se vorrei farlo con più calma e approfondimento. Le esigenze e i tempi lavorativi delle aziende sono stretti e frenetici. A me piace approfondire.

Lotto contro il tempo per mantenere la qualità a dispetto della quantità, che poi è quello che più interessa all’azienda.

Micaela, rispetto a quando ti ho conosciuta sei diventata un prodigio di mediazione!

Si, infatti: è un continuo compromesso.

Micaela, ho usato la parola mediazione: non compromesso!

[Ci guardiamo negli occhi, sorridendo.]

No, no è proprio un compromesso: spesso al ribasso ma, pazienza, questo è il lavoro!

In ogni caso la tua attività di filosofa, pur fuori dai binari professionali, è andata avanti.

Si, in occasione del Pride 2016 ho collaborato con Daniele Viotti, (parlamentare europeo e vicepresidente per l’intergruppo per i diritti della comunità LGBTQ+ nel parlamento europeo) alla composizione di una guida dei diritti presenti e dei diritti mancanti per le persone LGBTQ+ in Europa. La ricerca è diventata un libro nel giugno del 2017.

Questa esperienza mi ha fatto crescere in consapevolezza. Molti dei diritti che si consideravano assodati in Europa, da noi, in Italia, non esistevano.

Da filosofa ho pensato: non è un “destino” quello di essere considerati cittadini di serie B, se hai una vita omoaffettiva. Ho scelto di non accettare lo status quo e di lottare. Questo è già avvenuto negli altri stati europei. L’idea che questa differenza sia ingiusta mi ha aiutato a rivendicare il mio diritto all’eguaglianza con serenità.

Quando e come è successo?

È avvenuto con la nascita del mio secondo figlio, Niccolò.

La mia compagna e io abbiamo concepito questo figlio con una decisione comune. Chiara avrebbe affrontato la maternità biologica di Niccolò, ma io mi sono sentita genitrice del bambino dal momento in cui abbiamo deciso di metterlo al mondo.

Ho deciso di lottare per non essere un soggetto giuridicamente estraneo al bambino che sarebbe stato, a tutti gli effetti, mio figlio. Niccolò non avrebbe dovuto subire l’ingiustizia di avere meno garanzie e possibilità degli altri.

Il primo passo è stato quello di parlare con un avvocato, per capire se le mie percezioni e le mie convinzioni filosofiche ed etiche avessero anche la potenzialità giuridica.

L’avvocato era convinto che valesse la pena di provare a rivendicare il diritto di essere riconosciuta come madre di questo bambino in Italia, come lo sarebbe stato in altri paesi europei.

Così è nata la battaglia per il riconoscimento di Niccolò.

Praticamente ti sei trasformata da essere un filosofo che studia gli altri in individuo consapevole che agisce incarnando i principi filosofici. Ti sei fatta materia della bioetica.

Conoscendo a fondo le implicazioni di tanti principi, ho cercato di renderli operativi. Questa configurazione familiare sembrava inconcepibile e impensabile a livello giuridico, eppure esisteva nella realtà.

Il risultato è stato ottenuto: Niccolò è stato il primo bimbo riconosciuto in Italia con due madri.

Si, ma il diritto è precario, non esiste una legge certa. Solo una legge può mettere in sicurezza questo diritto.

Abbiamo dato una scossa potente a un sistema che non ci contemplava come giuridicamente esistenti. Abbiamo ottenuto il riconoscimento di Niccolò alla nascita senza passare dall’adozione. Non è stata una conquista solo individuale, molte altre coppie hanno seguito il nostro esempio.

Ma l’ultima parola, in questi casi, è sempre di qualcuno che deve accordare o negare il diritto.

In quale modo hai fatto la differenza in questa vicenda e quali sono state le tue emozioni?

Abbiamo semplicemente visto una porta che era invisibile: nessuno la vedeva. Noi abbiamo voluto credere che ci fosse. Ho voluto bussare a quella porta.

Ho avuto la soddisfazione di essere riuscita a farla vedere agli altri e di essere riuscita a farla aprire. Questo è forse l’aspetto più emozionante della filosofia: hai un’idea, vedi un’idea e riesci a farla vedere ad altri che ti aiutano a trasformarla in realtà.

La sensazione è stata di pace. La giustizia ritrovata, contro l’angoscia di qualcosa di ingiusto che mi faceva ribollire il sangue.

La tua storia ha avuto eco a livello nazionale e internazionale. Avevi già intenzione di scrivere un libro?

Niccolò è stato il primo bambino in Italia riconosciuto alla nascita come figlio di due mamme. Ci sono state interrogazioni parlamentari e la nostra famiglia ha subito i violenti attacchi degli oppositori. Dopo tre mesi, le acque si sono calmate.

Ho iniziato a scrivere la nostra storia. L’ho fatto per me, per una mia esigenza intima di fare ordine e di capire come eravamo state capaci di far riconoscere quel nostro diritto, e soprattutto quello di nostro figlio.

Pensavo ai posteri? No, scrivevo per me e per Niccolò. Era un diario concettuale, volevo riflettere su come tutto fosse partito da tre concetti fondamentali: verità, identità e necessità di mantenere le promesse. Tre principi etici riconosciuti come “buoni” principi da sempre, nella storia della filosofia.

Ho scritto il testo di getto, in tre mesi. Nel tempo libero. Per soddisfare la mia esigenza di astrazione. Non pensavo certo alla pubblicazione.

Come ci sei arrivata?

Alcuni amici filosofi di professione, accademici, un giorno mi dicono: “questo è un contributo che merita di essere pubblicato”.

Con un po’ di imbarazzo, ma anche con orgoglio, provo a verificare se qualche casa editrice è interessata. Lo propongo a tre case editrici, una importante, una di nicchia che si occupa di tematiche LGBT e una di settore (bioetica).

Un editore mi propone una pubblicazione a mie spese, opzione che non prendo in considerazione.

Un altro è disponibile a una pubblicazione senza costo da parte mia. Sono contenta, ma mentre sto per firmare il contratto, la casa editrice più importante, Einaudi, manifesta il suo interesse e mi riconosce i diritti di autore e propone una diffusione nazionale. Pubblicare con Einaudi significa uscire dalla nicchia di settore e avere una diffusione del pensiero in una fascia di pubblico più ampia. Questo è un modo per diffondere le idee e arrivare alle persone. Il testo però deve essere semplificato, occorre rinunciare al gergo filosofico e al linguaggio tecnico giuridico.

Inizia quindi l’opera di traduzione. Il testo viene trasformato, l’editor che mi hanno affiancato, la curatrice del libro, è di grande supporto, entra in sintonia e mi aiuta a sciogliere i concetti.

[Il libro è “Generazione arcobaleno – La sfida per l’eguaglianza dei bambini con due mamme” edito da Einaudi]

Cosa ti sei portata a casa da questa esperienza di collaborazione?

Molta umiltà. Ho dovuto lasciare andare.

Ho fatto con il mio libro quello che si fa con un figlio: lo devi lasciare andare, libero di crescere e diventare quello che è, senza imporgli di vedere il mondo come lo vedi tu.

Pensi che la tua scrittura sia cambiata dopo questa esperienza?

Non lo so. Il mio modo di pensare è questo. Concettuale, approfondito e tecnico. Anche il mio modo di scrivere è così.

Comunque, il libro è uscito. Ne sto parlando in molte interviste online. Quando parlo della mia esperienza cerco di non perdere la precisione del discorso.

Cosa succede ora?

[Ride.]

Ora? Cresco i miei bambini. Il libro avrà una sua vita, spero venga letto apprezzato. Spero venga utilizzato.

Noi abbiamo dato una scossa: abbiamo indicato una rotta ma non siamo entrati in porto. Spero che la nostra esperienza possa sollecitare una revisione della legge.

Cosa è per te il cambiamento?

Invecchiando ho smussato molti spigoli, ho scoperto la pazienza e l’umiltà. Sono cambiate tante cose. Cambiare significa integrare le ombre che inizialmente rifiuti. Il cambiamento arriva e devi saperlo accogliere.

L’importante è individuare sempre il “cosa hai imparato da questa storia”, per integrare gli aspetti positivi e farli tuoi. E poi farne qualcosa.

Quali sono le tue caratteristiche personali a cui non rinunceresti?

Sicuramente l’integrità. Non sono mai scesa a compromessi, e ne ho pagato il prezzo.
Poi la trasparenza. Cerco di essere una persona che non perde tempo nel giudicare gli altri. Amo sospendere il giudizio. Non giudicare le persone per come vivono la loro vita, perché non sappiamo cosa le ha portate a scegliere.

E poi il senso di giustizia e la rabbia per le ingiustizie. Soprattutto quelle che non riguardano me. Quando si è prospettata un’ingiustizia che avrebbe danneggiato il bambino che stavo per mettere al mondo non ho esitato, ho tirato fuori gli artigli.

Ti ricordi Calimero che diceva “questa è proprio un’ingiustizia”? Beh: da bambina ero affascinata da questo personaggio. Non è un caso, non trovi?

[Ridiamo. L’intervista è finita e inizia il tempo delle chiacchere tra amiche, prima di salutarci. Sono stata testimone partecipe della storia di Micaela, eppure ho la sensazione che solo intervistandola ho intuito la portata emotiva e non solo storica della sua lotta.]

 

Micaela Ghisleni 
Filosofa specializzata in Etica pratica e Bioetica, è oggi progettista della formazione. Negli ultimi anni si è dedicata allo studio delle tematiche di genere e delle famiglie omogenitoriali. Socia dell’Associazione Famiglie Arcobaleno, è attivista per i diritti civili. La sua riflessione filosofica da accademica è diventata militante. Autrice per Einaudi di Generazione arcobaleno. La sfida per l’eguaglianza dei bambini con due mamme (2020).
https://www.einaudi.it/autori/micaela-ghisleni/


L’intervista di Micaela Ghisleni è inclusa nell’eBook
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