Non sono più dipendente di un’azienda da un anno, ma continuo a occuparmi di azienda come coach, come formatore e come consulente. Ho avuto molto tempo per analizzare il rapporto tra il dipendente e l’azienda ed elaborare un processo di riflessione scientifico agevolato da una prospettiva disincantata, tecnica ma supportata da un’esperienza diretta.

Come ogni inizio anno, per molti questa è una fase di propositi. I buoni propositi in azienda nascono come reazione a una promozione che ci ha gratificato, a un mancato riconoscimento che ci ha ferito, a una situazione di crisi che ci preoccupa o a un clima negativo che ci ostacola. 

Se dicembre è tempo di bilanci, a gennaio si definiscono gli obiettivi ed è un momento cruciale perché solo quando gli obiettivi giusti per noi possiamo mettere le basi per la nostra riuscita.

Se sei un dipendente, il rapporto con l’azienda è un punto fondamentale da cui partire. Per questo desidero metterti in guardia rispetto a cinque equivoci piuttosto diffusi che ostacolano una vita professionale equilibrata, efficace ed efficiente.

In un momento storico in cui le aziende sono in difficoltà e molte risorse temono per la continuità del loro rapporto lavorativo è fondamentale affrontare il clima di incertezza liberandoci dai pregiudizi che inibiscono la capacità di resilienza e la fiducia nel futuro.

Basandomi sulla mia esperienza diretta, ti racconto qui di quelle “sentenze” che sicuramente avrai sentito e risentito migliaia di volte e che ti possono condizionare.


1 – È come un matrimonio

Lo scorso dicembre, per la prima volta nella mia vita, mi sono trovata a fare i conti con quello che da anni nelle aule di docenza del mio secondo lavoro insegnavo: il rapporto di lavoro è un contratto. Un contratto e non un matrimonio.

Quando l’azienda delude le aspettative, quando non è in grado di mantenere le promesse o solo di essere all’altezza delle nostre aspettative, ci sentiamo “traditi”. La sfida è emanciparsi dall’idea del tradimento.

L’azienda ha il diritto di autodeterminarsi e scegliere, magari facendo un errore, che non ha più bisogno del contributo di un dipendente o che non lo vuole premiare. Quando un licenziamento o una lettera di dimissioni sancisce la fine di un rapporto lavorativo, è tipico sentire recriminazioni del tenore “con tutto quello che ho fatto per…” che snaturano la natura contrattuale del nostro patto professionale.

Quando interpretiamo il rapporto con l’azienda come un legame sentimentale cadiamo nell’equivoco di aspettarci che l’azienda si occupi di noi. Ci aspettiamo una dedizione parentale, offriamo una prestazione emotiva e di cura, entriamo in un ginepraio di meccanismi ricattatori nel quale ci sentiamo prigionieri e che limitano la nostra performance professionale.

2- Fuori di qui, non vali nulla

Dopo molti anni di lavoro in una organizzazione diventa difficile immaginare la nostra vita altrove. Abbiamo acquisito una seniority sul ruolo, siamo riconosciuti e magari siamo i massimi esperti in una certa procedura o di un’area di nicchia. La nostra anzianità aziendale è una fonte di orgoglio e di soddisfazione, talvolta è addirittura celebrata da un riconoscimento ufficiale.

Questo equivoco talvolta è alimentato dall’azienda stessa. Nei periodi buoni, infatti, limita il turnover dei dipendenti, che è molto costoso, soprattutto per le figure appetibili. Il dipendente è rassicurato sul suo valore ma allo stesso tempo accetta l’idea di essere utile e efficace solo nel ruolo e nell’ambito in cui si muove e rinuncia a qualsiasi ambizione di cambiamento.

Lavorare in quell’azienda non è più una scelta ma una necessità. Lottare per mantenere lo status quo è l’unica opzione, ogni velleità di crescita è fuori luogo e la fiducia nelle proprie capacità e nella possibilità di “ripensare” la propria vita professionale è un azzardo. 

Se non sei soddisfatto del tuo lavoro, analizza i risultati che sei stato capace di ottenere, focalizza quali competenze hai acquisito in queste esperienze e prova a immaginare come potresti impiegare questo efficace mix di competenze tecniche e relazionali anche in un’altra azienda e (perché no?) in un’attività autonoma. L’applicazione delle tue capacità dipende da te, non dall’azienda!

3 – Alla tua età, non ci sono possibilità

Viviamo in un paese in cui a livello lavorativo non abbiamo mai l’età giusta. A trent’anni non abbiamo l’esperienza, a quaranta siamo appena entrati nel vivo e a cinquanta siamo vecchi. In più le crisi ricorrenti spingono le aziende ad approfittare dei mille incentivi per l’assunzione delle giovani risorse, così se resti senza lavoro a cinquanta anni, con almeno venti anni di vita lavorativa davanti a te, sei considerato poco appetibile.

Se hai più di trent’anni, non potrai ambire ad un contratto da apprendista, i selezionatori di risorse ti guarderanno con sospetto perché ti considerano una risorsa rigida, non ambiziosa e poco flessibile. Non hai la fame nella schiena, ovvero non sei disposto a qualsiasi cosa.

Questo equivoco è il motivo per cui le aziende sono piene di professionisti di esperienza disillusi che sopportare il loro lavoro anziché viverlo pienamente spendendo le loro capacità più preziose e mature.

Non lasciarti intrappolare, cambia prospettiva.
Ti sei mai domandato in quante professioni la giovane età è un dato negativo?

In Italia, è difficile rientrare nel mondo del lavoro a cinquant’anni, io stessa quando, qualche mese prima di compiere cinquanta anni, mi sono trovata senza lavoro, ho scelto di non combattere questa battaglia contro i mulini a vento e ho deciso di intraprendere la libera professione. Non avevo voglia di misurarmi con certe miopi politiche di assunzioni ma sono sicura che esistono aziende che guardano al risultato, al valore delle persone e basta trovarle. Alcune di queste aziende sono oggi mie clienti.

I miei cinquanta anni mi hanno messo il turbo. La professionalità che impiegavo come dipendente, l’ho riversata nel mio lavoro in proprio a beneficio dei miei clienti, privati e aziendali.

L’unica vera fortuna era quella di non essermi mai accontentata di quello che sapevo fare e di aver sempre cercato di acquisire nuove competenze. Oggi, nessuno, in nessun ruolo e in nessun tipo di realtà, può tirare i remi in barca. Se ogni anno hai imparato qualcosa di nuovo, per quale motivo ora non dovresti acquisire le  competenze che ti sono utili?

4 – Dovrai trovarti qualcosa da fare per riempire le giornate

Nei primi mesi dopo il licenziamento, molte delle persone che conoscevo mi chiamavano in orari improbabili, a metà mattina o nel pomeriggio e si stupivano se io non rispondevo.
L’idea diffusa era che dopo il licenziamento sarei rimasta a lungo senza nulla da fare e avrei affrontato lunghe giornate vuote. Questo, devo essere sincera, era uno delle mie peggiori paure.

Beh! Non c’è stato un giorno vuoto di lavoro, in cui non fossi impegnata per far crescere la mia professione. Certo nei primi tempi a tante ore di lavoro corrispondevano entrate ridotte, poi, man mano che passavano i mesi, le ore di lavoro sono diventate sempre più “fatturabili” e mi ritrovo spesso a occuparmi delle attività di comunicazione e promozione nel fine settimana o la sera.

Non ti racconto che è stato facile, quello che voglio dirti è che se il tuo obiettivo è produrre lavoro di qualità sei sulla buona strada per riuscire e per capire chi può aiutarti.

5 – Certo uno stipendio così non lo avrai più

È difficile per me dimenticare questa frase: mi è stata detta con un tono rassicurante proprio mentre mi stavano licenziando. Chi l’ha pronunciata si preoccupava sinceramente per il mio futuro, sicuro che avrei sopportato di buon grado di ridimensionare le mie ambizioni economiche ma che sarei riuscita a sopravvivere dignitosamente.

Ho pensato molto a questa frase. Ho rifiutato di trasformarla in una profezia che si auto-avvera.

Sono sempre stata consapevole che la presunta “tranquillità” di un contratto a tempo indeterminato richiede mediazioni importanti. Essere in un’azienda significa fare propri gli obiettivi di qualcun altro e significa accettare che il valore economico del lavoro sia sottoposto a logiche interne più che a quelle del mercato. Insomma, che io facessi un lavoro stupendo o mediocre lo stipendio era il medesimo ogni mese. Gli aumenti erano governati dalle logiche meritocratiche interne, dalla crisi, dall’umore dei miei responsabili, dal bilanciamento dei miei risultati con quelli dei miei colleghi.

Quello che voglio comunicarti è: si guadagna anche al di fuori dell’azienda dove sei, in un’altra azienda o nella professione che vorrai intraprendere da libero professionista.

Scegliere, un atto adulto

Esci dalla prospettiva di non avere un’altra scelta.

Se per te la sicurezza è importante e non hai voglia, tempo o energia per cercare soluzioni o condizioni diverse, la tua posizione è legittima, purché sia il risultato di una scelta consapevole e adulta.

Dobbiamo essere al centro della nostra vita professionale come soggetti attivi e non vittime di meccanismi obbligati e restrittivi.

… questo cambio di prospettiva, farà di noi professionisti migliori, capaci di portare soluzioni e non esecuzione di processi!

I risultati? Sarai più soddisfatto e realizzato e l’azienda potrà contare su un dipendente che fa la differenza.

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