Improvvisamente hai iniziato a sentire il termine infodemia?

In televisione prima, poi su internet in qualche articolo, alla fine persino il tuo vicino di casa lo ha usato. È successo anche a te?

Neologismo pandemico

Tra i neologismi del 2020 infodemia è uno dei termini più utilizzati, abusato nel corso di questa seconda ondata pandemica, che sembra contagiare, di discorso in discorso, anche i più autorevoli interlocutori.
Dal mio punto di vista, l’introduzione tanto repentina di un nuovo vocabolo nella nostra quotidianità merita una riflessione approfondita e la curiosità di capire quale tipo di impatto porta al nostro modo di vivere e sentire questo momento storico.

Qual è il significato di questa parola e perché sta entrando a far parte del nostro vocabolario quotidiano?

Una parola giovane

Il termine (Infodemic) è stato coniato dal politologo e giornalista americano David J. Rothkopf nel 2003 in un articolo per il Washington Post dal titolo “When the Buzz Bites Back” (letteralmente “Quando il ronzio morde di nuovo”).

Rothkopf, nell’articolo, descrive gli effetti deleteri che l’epidemia di SARS (Cina – novembre 2002) ha provocato a livello globale in economia e in politica. La causa di questo eccessivo e ridondante danno è, a suo avviso, imputabile alla proliferazione di notizie infondate, amplificate o non verificate, amplificate dalla sovrapposizione tra i media tradizionali e quelli nuovi ( a quell’epoca relativamente nuova era la rete internet che eliminava la distinzione tra i siti specialistici e quelli generalisti, tra gli autori qualificati e quelli improvvisati) con il risultato di  creare un volano di preoccupazioni collettive.

Alla sua nascita, dunque, questo termine non considerava i social e il fenomeno, ora attualissimo, dell’informazione orizzontale.

Il significato contestualizzato

Ecco la definizione attuale del termine:
infodemia è la diffusione incontrollata di informazioni (vere, false o fuorvianti) che accompagna un’epidemia di larga scala.

Se il termoine epidemia deriva dal greco, come epì (sopra) in associazione a dèmos (popolo), e ha come traduzione letterale “cosa che incombe sopra il popolo”, infodemia è una parola che nasce come assonante e metaforica e suggerisce la potenziale pericolosità della diffusione incontrollata delle informazioni.

Non ho fatto questa lunga premessa per darti suggerimenti pratici per distinguere le fonti e proteggerti dalle fake-news. Colgo piuttosto lo spunto per suggerirti di riflettere su come e quanto in questo momento siamo sollecitati della narrazione della pandemia.

Immersione nelle storie

I professionisti dell’informazione ci raccontano l’andamento dei contagi, i social ci raccontano le mille vite dei nostri contatti virtuali, al telefono ascoltiamo le storie delle persone, delle persone che loro conoscono o, ancora, le storie che sono state loro raccontate.

In questo momento l’infodemia coinvolge tutto lo spettro delle possibilità della diffusione delle notizie, dai social al telefono senza filo.

È difficile non essere travolti!

In più, le regole anti-contagio limitano il nostro spazio di azione. Sperimentiamo meno ed elaboriamo di più. Le storie che ascoltiamo sono assimilate, digerite ed elaborate quasi come vissuto personale. La narrazione diventa surrogato della relazione umana.

Un nuovo inconscio collettivo

Per sentirci parte della collettività, in un momento di distanziamento sociale, diventiamo parte della narrazione collettiva nel ruolo di chi racconta, di chi ascolta e di chi è raccontato.

Intanto, viviamo una situazione emotiva equivoca, in bilico tra il cinico  “si salvi chi può” e il generoso “la storia siamo noi”. La sensazione prevalente è che la crisi (economica e sociale) sarà per tutti e ognuno dovrà badare a preservare la propria sicurezza.

Quale obiettivo individuale e collettivo può aiutare il difficile proposito di “restare umani” che di fronte ad una crisi dobbiamo mettere in atto?

Sopravvivere fisicamente ed economicamente non è abbastanza.

Obiettivo “restare umani”

Quel “ne usciremo cambiati, ne usciremo migliori”, che è stato il refrain della prima ondata pandemica, non è l’esito automatico di un periodo difficile. “Cambiare in meglio” è un percorso che dobbiamo costruire giorno dopo giorno a partire da noi, navigando tra le nostre emozioni e gestendo l’infodemia a cui siamo sottoposti.

Partiamo dunque della sola risorsa che in questo periodo abbonda: il tempo senza azione. Scegliere lo scopo e  le azioni con cui riempire questo spazio è una nostra responsabilità.

Se non hai idea di come districarti e pensi sia il momento di chiedere aiuto, contattami.

Il coach non è un medico, è un compagno di viaggio che ti aiuta a issare le valigie sui treni che viaggiano verso il tuo stare bene.

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