Antonio è mio fratello.
Noi siamo cresciuti insieme, condividiamo il patrimonio genetico e l’educazione. Chi ci incontra si stupisce per quanto ci assomigliamo, quasi fossimo la declinazione dello stesso formato estetico nei rispettivi sessi.
Autentico motivo di orgoglio è la stima che ci riserviamo. Siamo stati sempre un leale e prezioso alleato l’uno per l’altra nelle avventure umane e professionali. Nel nostro continuo confronto, apprezziamo quello che ci separa quanto quello che ci unisce.
Eppure questa intervista non si spiega con il solo legame di sangue.
Antonio è prima di tutto un sognatore con i piedi ben posati per terra. Ha costruito un percorso professionale e di vita di eccellenza, superando ostacoli e difficoltà, fedele alla personale filosofia.
Ecco come ci racconta di sé in questa intervista.
[Domenica pomeriggio, un caffè a casa della sorella maggiore]
Qual è il tuo lavoro?
Nella vita, nella professione di base sono un architetto, ossia un tecnico che dovrebbe riuscire a conciliare la tecnologia con il bell’aspetto.
Sono un arcologo! Probabilmente questa parola per te non significa niente, e io ti offro la mia definizione: l’arcologo è uno che riesce a conciliare il costruire e l’ambiente, ossia costruisce e lo fa a basso impatto ambientale. Ha a che fare con il benessere.
Essere un arcologo significa conciliare in un’unica attività a ciclo chiuso la natura, la bellezza e il vivere salubre.
Qual è la tua missione nella professione e nella vita?
È camminare leggero sulla terra. Come persona e come architetto.
Devo pensare alla gestione di un sistema complesso e non c’è solo la tecnica, c’è anche la filosofia che voglio mettere in campo per il benessere delle persone.
Che cosa ti ha spinto a scegliere questo tipo di specializzazione dopo la laurea?
Ti risponderei che non so fare diversamente. [Sorride]
Tutto è iniziato nel 2001 con un’esperienza che ho svolto in Arizona lavorando con Paolo Soleri che è uno degli allievi di Frank Lloyd Wright. L’incontro con Soleri è stato, diciamo così, una rivelazione. In America ogni giovedì pomeriggio avevamo un incontro con lui, in cui ci parlava di teorie costruttive, di cui vedevo la piena applicazione nella città-laboratorio che ha fondato in Arizona , Arcosanti. Tutto quello che avevo studiato veniva messo in discussione. Una vera terapia d’urto, profondamente trasformativa! Tornato in Italia era cambiato il mio approccio alla progettazione.
Nei primi incontri con Soleri mi comportavo come negli esami universitari, dimostrando le mie competenze e le mie letture. Soleri un giorno mi ha detto “no, tu sei un architetto. Studi sistemi costruttivi, devi evolvere soluzioni nuove, non copie. Se vuoi progettare qualche cosa, chiudi tutto e inizia a riflettere, a disegnare, a scherzare, a fare senza pensare a cosa è stato fatto”
Quindi l’invito del maestro Soleri è stato un invito in direzione della creatività?
Sì, in direzione dell’indipendenza. Per questo credo sia giusto contrastare il progetto di concentrazione della città a fronte di un’idea di città diffusa perché la scienza dell’abitazione deve fondersi con la natura. Questo è il motivo per cui le teorie di Soleri, in palese contrasto con il mercato, hanno avuto un successo relativo, esclusivamente filosofico.
Quindi hai fatto una scelta fuori dallo standard?
Non è una questione di scelta, è che proprio non so fare diversamente, è una vocazione. Aspiro al martirio.
[Pronuncia questa frase con le labbra increspate in un sorriso.]
Dopo Soleri e Arcosanti?
Tornato in Italia dopo questa esperienza mi sono laureato, mi sono abilitato come architetto libero professionista. È il 2007, diciamo che è un periodo in cui il panorama della bioarchitettura è abbastanza confuso, con idee tecnologiche da approfondire ancora dagli anni ’70 e lo stato dell’arte è tendenzialmente arretrato senza una produzione in grado di supportare questo nuovo stile di costruire.
Questo significa che ho dovuto ripartire dall’utilizzo di materiali del territorio italiano e riflettere su come applicare la teoria e il senso pratico che avevo appreso in America.
In cerca di nuove competenze mi sono iscritto ad un master. Non volevo lavorare con i materiali tipici degli anni ’60-’70. La mia teoria era basata su questo concetto di Arcologia, legata al territorio. Una sorta di km0 dell’architettura.
Per fare questo serviva un’attualizzazione della filosofia costruttiva, la definizione della normativa ma anche le competenze artigiane per i cantieri. Così ho iniziato ad organizzare laboratori-cantiere per formare gli artigiani.
Parallelamente, sono nati i laboratori con i bambini. Fare è un modo per conoscere e vivere una filosofia. Il concetto che cerco di trasferire è che avere conoscenze e competenze rende liberi, doversi approvvigionare di tutto comprandolo rende dipendenti. I bambini sono molto ricettivi, sono leggeri nel loro incedere, e molto accalorati nella difesa del pianeta. Dal 2015, con la collaborazione con gli artigiani giapponesi, insegno tecniche di modellazione dell’argilla inedite per noi europei. La cultura giapponese è gentile, contemplativa. I giapponesi per valutare la terra di scavo e la sua possibilità di impiego, costruiscono una piccola palla di argilla che viene lucidata fino a diventare un oggetto prezioso, il dorodango. Ci vogliono alcuni giorni di manipolazione ma abbiamo trovato una metodologia che consente ai bambini di realizzare le loro sfere a partire da uno gnocco di fango nel corso di un laboratorio di un paio d’ore. Sono attività in cui i bambini si perdono, tanto che a volte è difficile rimandarli a casa!
Il tuo rapporto con il coaching?
Il coaching è stato per me assolutamente necessario. Mi ha aiutato a ridiscutere delle credenze che erano in qualche modo limitanti, mi ha emancipato da alcune mie paure e dal giudizio degli altri e da idee negative di me stesso, che mi bloccavano e, soprattutto, ha messo ordine alle aspirazioni.
Mi sono rivolto al coaching in un periodo in cui disperdevo le energie in mille filoni, inseguendo l’obbiettivo di un reddito che comunque era difficile da mettere insieme.
Ho iniziato a concentrarmi sui i miei progetti e i clienti hanno iniziato a contattarmi per le mie specifiche competenze.
La mia coach mi ha aiutato a capire che ero padrone di un metodo e che dovevo comunicare come il mio lavoro poteva essere utile al cliente. È stata capace di intercettare alcune mie caratteristiche, aiutarmi a valorizzarle senza mai avere la pretesa di dirmi come fare. Utilissimo se si è disponibili a mettersi in gioco!
Il tuo rapporto con il public speaking?
Non sono nato con l’attitudine a parlare in pubblico, né l’ho sperimentato nell’infanzia perché parlava sempre mia sorella!
[Ridiamo in due, so che ha ragione!]
Parlare in pubblico mi spaventava, ma ho capito che devo concentrarmi sui contenuti e sul messaggio. Devo trasmettere informazioni ed emozioni, per questo uso tantissime immagini con pochi testi. Non sono lì a sostituire l’enciclopedia ma a comunicare il significato di quello che faccio.
Quello che amo di più è lo scambio successivo alla presentazione perché è più informale, non ho limiti di tempo e posso dare attenzione al mio interlocutore.
In Irlanda stavo per parlare ad un gruppo di esperti e tra il pubblico ho intravisto la signora che mi ospitava nel suo bed & breakfast, incuriosita dai discorsi davanti al caffè lungo (caffè irlandese) della mattina. Sono stato contento e ho iniziato…
Antonio è mio fratello, con quella certa testa dura di famiglia, con le sue belle storie di arcologia, terre e cannicciati dall’America al Giappone…
con la favola del cantiere dei maestri giapponesi di UNIQLO’ ….
(presto su questo blog!)
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Antonio sorprende sempre, e la cosa più bella è che in fondo in fondo ci trovi una sorpresa… In genere a ben guardare salta fuori alla fine. E’ la soluzione finale quella che conta e lui le passa tutte per giungere alla migliore, ma “l’arcologo” è una testa dura ed ogni volta va oltre trovando inedite geniali e semplici soluzioni….