Quanta cattiveria… !
Alzi la mano chi non ha mai pensato di essere vittima dell’altrui cattiveria!
La cattiveria è una delle prime categorie di analisi della realtà che apprendiamo nell’infanzia. Il mondo nei primi anni di vita si divide tra entità buone e entità cattive, assolutamente contrapposte.
Nella percezione ego-centrata queste due categorie beneficiano o inficiano ogni esperienza umana.
Ricordo qualche anno fa di aver visto un bambino di circa tre anni colpire una roccia sulla quale si era ferito gridando “cattiva, cattiva” così coinvolto nella sua azione da smettere di piangere per la sbucciatura che si era procurato.
Il significato di cattiveria?
Partiamo dall’etimologia. La parola cattiveria deriva dal latino captivus (prigioniero, schiavo da cui curiosamente deriva anche il saluto ciao).
Captivus o captus è il participio passato del verbo capere (prendere, catturare, afferrare), l’uomo “catturato” è il prigioniero di guerra in stato di schiavitù privato della sua condizione di uomo libero. Il significato muta nel medioevo quando acquisisce il carattere di “malvagio” e indica una persona abbandonata da dio nel captivus diaboli (ovvero prigioniero del diavolo ossia tutto ciò che è “non buono”).
La definizione moderna di cattiveria è dunque “innata disposizione a far del male, a recar danno al prossimo nelle sue cose o nelle sue aspirazioni”.
La cattiveria che si esplica in comportamenti dannosi nasce come reazione a sentimenti negativi quali la rabbia, la frustrazione, la tristezza, l’insoddisfazione e la tensione verso qualcosa.
Perché soffriamo
La “cattiveria” è una caratteristica che attribuiamo agli altri quando un qualche loro comportamento ci arreca danno o sofferenza.
È una reazione normale che tira in ballo la nostra percezione egocentrica della realtà. Il nostro pensiero emotivo ci suggerisce che qualcuno “si è comportato in modo da farci del male e lo ha fatto contro di noi per arrecarci offesa”.
Attribuire l’origine della nostra sofferenza a qualcosa di maligno, esterno a noi, ci solleva dalla necessità di “cambiare” e al tempo stesso ci protegge creando distanza tra noi e la fonte di possibili pericoli.
Il bambino che ha schiaffeggiato la roccia, il giorno seguente si terrà a distanza di sicurezza per evitare altri incidenti!
Per quanto questa reazione sia comprensibile e utile nell’immediato, consolida una atteggiamento che non ci aiuta e che alla lunga ci porterà a essere le vittime collaterali dei piani degli altri.
Vittime collaterali
Sì, ho proprio usato l’espressione vittime collaterali.
L’uomo agisce sempre secondo il principio del risparmio energetico. Una qualsiasi azione implica un dispendio di energie che è giustificato solo dall’ottenimento di un beneficio pari o superiore allo sforzo.
Ti senti vittima della cattiveria di qualcuno poniti queste domande:
Cosa ha ottenuto con questa azione?
Per quale motivo qualcuno dovrebbe mettere il suo impegno solo per arrecarci un danno?
E soprattutto:
Come potevo fare in modo di essere uno degli elementi da prendere in considerazione prima che intraprendesse questa azione per me dannosa?
Come posso limitare il danno?
Le risposte a queste due domande sono sintetizzabili in due concetti primari: assertività e dialogo.
Assertività e dialogo
Gli altri non si curano di noi se non esprimiamo le nostre necessità e non mostriamo le nostre emozioni.
Non siamo al centro della vita degli altri e se desideriamo essere considerati dobbiamo esprimere le nostre necessità.
Qualche anno fa ho assistito a una classica situazione in
cui due colleghi apparentemente si “facevano la guerra” a furia di “colpi bassi”.
Desideravano entrambi un ruolo in un progetto e ognuno di loro giocava le carte
migliori per essere scelto.
Alla fine, chi ha ottenuto il ruolo è stato accusato di “cattiveria” dall’altro
e si è giustificato dicendo “mi sono mosso per il mio interesse”.
Sicuramente era vero e magari ha giocato spingendosi un po’ oltre il limite
della correttezza.
Il collega che non ha ottenuto il ruolo si è lamentato della mancanza di onestà e si è sentito vittima della cattiveria dell’avversario ma non era disposto a superare il limite che i suoi valori gli imponevano.
In ogni caso il rapporto tra loro era completamente compromesso.
Nell’anno successivo gli esiti di quella cattiveria hanno disturbato il loro lavoro e la loro serenità.
Non si sono più supportati, non hanno collaborato, chi non ha ottenuto il ruolo si è mostrato a sua volta “cattivo” facendo ostruzionismo su tutte le attività che avrebbero agevolato il progetto e chi ha ottenuto il ruolo ha fatto pesare la sua posizione. Il progetto non è stato completato.
Cosa è successo in realtà?
Ognuno di loro ha seguito il proprio percorso senza attenzione verso il
contesto, le persone e le conseguenze.
La cattiveria percepita, come spesso accade, è il risultato della disattenzione.
Quale potrebbe essere una via per uscire da questa situazione?
Dialogare e integrare le variabili non considerate nel quadro generale.
Per prevenire e risolvere situazioni che troppo spesso liquidiamo con un “quanta cattiveria!”, occorre un approccio differente e consapevole al raggiungimento degli obiettivi.
Il coaching applicato alle relazioni di lavoro serve proprio a questo: a raggiungere un obiettivo efficacemente e felicemente soprattutto se espressioni come “è uno con la giusta dose cattiveria” non ti rappresentano!
Moon: round trip è il percorso che ho pensato per costruire relazioni equilibrate e soddisfacenti con le persone con qui lavori.